Essere e avere

Per essere è necessario avere?
La nostra cultura basata sul consumismo ci ripete di sì. L’ultimo modello di cellulare è meglio del penultimo. E così me lo compro! Perché se io uso un cellulare vecchio, forse io non so stare al passo coi tempi. Se la mia protesi elettronica non possiede gli attributi più aggiornati, questo significa che sono IO che non possiedo gli attributi migliori.
E allora forse non è solo questione di ideologia, di economia, di politica. Forse è questione di psicologia.
L’uomo si è sempre identificato con ciò che possiede. Le cose che mi appartengono sono un prolungamento di me e, in quanto mie protesi, sono l’immagine di me che si estende al di fuori di me.
Sono il mio biglietto da visita, sono il modo in cui appaio. Sono io. Le mie cose sono io.
Ma se le cose che possiedo non sono altro che una mia estensione, come accade che a volte io mi sento posseduta da loro, e non viceversa?
Parecchi anni fa, durante una vacanza in Spagna, venni derubata di tutto il bagaglio. All’iniziale dolore per la perdita di oggetti amati (amati, ossia caricati di affetto, quindi parte di me), è succeduta l’angoscia dovuta al fatto che, con i bagagli, mi erano state rubate anche le chiavi di casa, e l’indirizzo era scritto sulla valigia. Ho trascorso un giorno intero piangendo sui miei averi che sicuramente mi erano stati rubati.
Lasciamo perdere la questione relativa a quanto sia possibile che un ladro scalognato che ruba una valigia a Madrid si pigli la briga di investire tempo e denaro per andare fino in Italia a svuotare un appartamento che non sa neanche se ne valga la pena. Non è questo. Il problema alla base del mio pianto era che le mie sicurezze, le mie “cose” (o meglio la “roba” di verghiana memoria) erano in pericolo, e che io ero troppo distante per poterle proteggere.
Fatto sta che ho passato una giornata a piangere come un vitello mentre gironzolavo per la Mezquita di Cordoba, senza godermi quella meraviglia e lasciando il perenne ricordo di una pazza in lacrime che singhiozzava sconsolata in un angolo del giardino degli aranci nelle decine di turisti che quel giorno visitavano il monumento. Io piangevo sulla morte delle mie cose, sulla perdita, mi vivevo il mio lutto preventivo (perché infatti non mi hanno rubato nulla).
Rientrata in Italia, nuova epoca di deliri. Finché ero in casa il rischio di furto non c’era, perché la serratura era inespugnabile, ma quand’ero fuori per lavoro, allora la serratura era lì, pronta ad accogliere la chiave rubata a Madrid e a lasciar entrare senza difesa alcuna i ladri astuti, che si sarebbero intrattenuti fino al mio rientro, in modo da potermi poi con tutto comodo fare fisicamente del male.
Il delirio che mi abitava la mente era così intenso e ininterrotto che un giorno, a metà pomeriggio, lasciai l’ufficio con la sensazione che i ladri fossero a casa mia e corsi da un fabbro, per farmi cambiare la serratura. Ciò fatto, mi feci una solenne promessa: in futuro mai nessun oggetto avrebbe avuto per me tanta importanza da avvelenarmi le giornate e le notti con pensieri foschi e angoscianti. Ebbi una visione: io che trascinavo un carretto con sopra tutto ciò che mi apparteneva, procedendo a stento, un passo dopo l’altro, con sforzo e fatica. Ma dopo aver deciso che ogni cosa che possedevo poteva anche sparire un attimo dopo, all’improvviso il carretto si fece leggero, come fosse carico di polistirolo.
Fu un attimo: all’improvviso tutte le “mie cose” diventarono solo “cose”, oggetti, sostituibili, rinunciabili, regalabili, perdibili, rubabili. E da allora non piansi più la perdita di un orecchino, la rottura di una ciotola molto amata, l’aver rovinato un vestito lavandolo con altri abiti colorati. Da allora le cose, e i soldi che mi erano costate, divennero molto, ma molto, leggere.
Fu molto piacevole, e il piacere ancora mi accompagna quando mi capita di perdere o rompere qualcosa, o di venire derubata. La sensazione iniziale di rabbia e sconforto svanisce d’un tratto e lascia il posto a un solo pensiero “Sfortuna!”. Già, solo sfortuna. Poteva andar meglio ma sono stata sfortunata. Il ladro stava proprio dietro di me, e non dietro a qualcun altro. Solo sfortunaa, e non una mia colpa, una mia responsabilità, un mio dovere. E all’improvviso mi sgancio dal mio “avere” che il destino mi ha sottratto e io volo via, verso altro.
Ma l’avere non è solo un modo per mostrare chi e cosa sei. A volte è un modo per rappresentarti il mondo, per dargli un senso, per spiegarti e organizzare la realtà in cui vivi.
Un esempio? Anni fa andai in India. La prima impressione che ne ebbi fu di essere capitata su un altro pianeta, tra i marziani. La gente agiva, si misurava con la realtà, faceva cose in un modo per me inimmaginabile. E incomprensibile.
Non lo capii subito. Al momento mi invase solo lo stupore (e anche un po’ la rabbia che sempre accompagna la paura nei confronti di ciò che ci è ignoto) rispetto a questo popolo di pazzoidi.
A volte ridevo delle loro trovate, a volte mi arrabbiavo, altre volte mi indignavo o mi schifavo. Ma mai restavo neutrale. C’era, nel modo di agire di quelle persone, qualcosa che io non potevo capire.
Riuscii a comprendere la radice di queste mie reazioni emotive solo una volta tornata nel “mio” mondo. Ossia non appena mi fu possibile operare un confronto.
E accadde una sera, mentre tornavoa casa dopo un’intera e terribile giornata di lavoro, le gambe a pezzi, la testa confusa, i piedi doloranti a causa delle eleganti scarpette col tacco, il corpo a disagio nel tailleur attillato. Questo stato di totale malessere era così profondo che ad un tratto, mentre aspettavo sul marciapiedi che arrivasse il mio autobus, ero arrivata a pensare di sedermi per terra. Ma subito un guizzo di savietà: lo stretto tailleur con minigonna e le scarpette col tacco non me lo rendevano possibile, mi ci voleva una sedia, un qualcosa su cui sedermi. Ma ebbi la visione di una donna indiana, avvolta nel suo saree e accovacciata per terra, in attesa di un qualche mezzo di trasporto. E invidiai quella donna. E all’improvviso capii che la mia cultura stava proprio lì, tra la voglia di sedermi e il poterlo fare. In mezzo ci stava una sedia. Un oggetto. Senza la sedia (o la panchina o qualunque altro artefatto atto allo scopo) non era concepibile il sedersi, per lo meno non in mezzo alla strada e vestita com’ero vestita.
Quella che sembrava una semplice questione di stanchezza, in realtà nascondeva una marea di simboli e di significati nascosti. Nella mia cultura tra il desiderio di sedersi e il poterlo fare ci stava un oggetto, mentre in India (o su Marte?) per potersi sedere bastava avere un sedere e un posto per terra su cui appoggiarlo.
Semplice no? Tra il progettare un’azione e il compierla non c’erano passaggi definiti da “mediatori oggettuali”; come la sedia, che media tra il volersi sedere e il sedersi. Qui il mio desiderio d’azione era condizionato dalla presenza o meno di un oggetto, mentre là si tornava all’essenza del sedersi, al minimo indispensabile: un sedere e un punto d’appoggio.
Là bastava essere una persona che voleva sedersi, qui era necessario avere una cosa (la sedia) per poter essere una persona che si siede. Insomma, l’oggetto, che all’apparenza dovrebbe essere una facilitazione, permettendomi di sedere più comoda, è diventato una condizione sine qua non, un vincolo, una prigione.
Con tutto ciò non voglio dire che in India non abbiano tali vincoli oggettuali e simbolici. Ne hanno a milioni, solo diversi dai nostri. Come a dire che è un po’ un vizio dell’uomo quello di rovinarsi l’esistenza con le regole, mediate o meno da oggetti.
Ma allora, se queste cose non vengono possedute ma ci possiedono, perché non riusciamo a ribellarci e a rinunciarvi? Chi o cosa ce lo fa fare di diventare schiavi delle cose?
Semplice. Le comodità che il possederle ci offrono.
Gli oggetti vengono inventati dall’uomo per risolvere dei problemi, delle difficoltà, ecco perché esistono. E proprio perché risolvono dei problemi, facciamo di tutto per possederle. Anche se, a lungo andare, questo provoca una dipendenza che ci rende loro schiavi. Non possiamo più farne e meno e, siccome per arrivare a possederle abbiamo fatto dei sacrifici, una volta che le abbiamo conquistate vorremmo averle per sempre e quindi le incateniamo a noi. Ci incateniamo a loro.
è un po’ quello che succede all’uccello che si è abituato a vivere in gabbia, dove il cibo è garantito in abbondanza, dove il pericolo di predatori non esiste, dove si è sicuri di stare al caldo e protetti. Certo, la gabbia è piccola, non permette di volare, ma d’altro canto se si vola si rischia di finire tra gli artigli del nibbio, o impallinati da un cacciatore, o a morire di fame nel gelo dell’inverno.
Ecco perché se si lascia aperta la porta della gabbia questi uccelli può accadere che non volino via, e se li si mette fuori dalla gabbia cercheranno di rientrarci. Ma se riusciranno a resistere fuori dalla gabbia, giusto il tempo per assaporare il gusto della libertà, allora nulla potrà farli rientrare nella prigione, e non ci sarà fatica, fame o pericolo che tenga che possano convincerli a tornare là dentro.
Ma prima bisogna vincere la paura, bisogna correre il rischio di uscire all’aperto senza la nostra corazza di oggetti a proteggerci. Come gli uomini primitivi... che vitaccia, però!
Forse, allora, quella migliore è la via di mezzo: apprezzare le cose che possediamo per i vantaggi che possono offrirci, tranne poi salutarle con leggerezza quando non possiamo averle o le perdiamo. Senza, cioè, diventarne dipendenti.
Ossia avere senza perdere il contatto col nostro essere, restando anzi perennemente capaci di recuperarlo, di ritrovarlo, per immergerci ogni tanto nell’essenzialità, nella purezza di una vita che non ha bisogno di possedere per poter essere.